Kitera – Grambusa

29 luglio 2011 Kithera – Grambousa 40 miglia, zero vento.

Calma piatta per il balzo finale dopo una notte passata al lavoro per lanciare il video nel blog. Pido ha fatto le sei, io le 4 (sono più vecchio). Gli altri salpano senza di noi, cadaveri in cuccetta. Mi sveglio alle 10,30, c’è Anti Kithera che sfila vicino, un leone spelacchiato acquattato. Trenta anime ci vivono, cento d’estate. Che posto perso. Qui hanno trovato una nave antica, naufragata malgrado un astrolabio che pare fosse stata una meraviglia da computer.

Due isole iniziano a profilarsi all’orizzonte, Agria (selvaggia) e Imeri (mansueta) Gramvousa. La fortezza è sulla seconda ma non si vede, mimetizzata, rocce su rocce. Ma esiste ancora? E se fosse definitivamente crollata? Persa come tante altre? Beffa, beffa. Scongiuri, ma c’è! Ecco una torretta e le linee delle mura che seguono magistralmente la linea del promontorio inerpicandosi alla fine di una scogliera che toglie il fiato. La vedremo al tramonto io e Pido, dopo esserci inerpicati come muli mediatici. Ma prima c’è da ormeggiare in una baietta dove l’acqua è trasparente e spunta un relitto di una vecchia nave che portava cemento chissà dove. I barconi dei turisti stanno al molo, noi indugiamo aspettando che se ne vadano. La fortezza progettata da Latino Orsini e realizzata nel 1584 da 100 muratori, altrettanti spezzamonti, 300 angarici (contadini angariati) 400 galeotti, poteva aspettare. Prima c’era il bagno esploratore al relitto pare di una nave libanese naufragata nel 1981 a due passi dalla spiaggia di Kalyviani.

L’elica di bronzo è ancora sommersa, la poppa spezzata affonda. Alle cinque de la tarde i turisti se ne vanno e possiamo affrontare la scalata dopo un ormeggio al volo non proprio perfetto visto che mi ha visto protagonista. Appesantiti da zaino e cavalletto iniziamo la scalata, novelli Don Chisciotte e Sancho Panza (chi sono io?). Incrociamo prima Robinson, un greco dall’ampia pancia, jeans corti e bastone che si muove come il padrone dell’isola, e poi Billy the Kid, giovinastro con fucile in spalla che poi vedremo in azione a impallinare conigli selvatici, con le capre gli unici mammiferi dell’isola. La salita è impervia, in mezz’ora però sei in cima. Un contrafforte protegge l’entrata restaurata, prima però c’è il leone: è in marmo, potente, in rilievo, due zampe rubate, la criniera che gli scende sul patto, il muso che ti guarda a fauci spalancate, i canini a mostrare piglio guerriero, gli occhi vuoti che ti guardano per sempre da terra, abbandonato. Forse avevano tentato di rubarlo, e sono riusciti solo a toglierlo da sopra l’arco del portone d’ingresso. Uno scudo con un ponte in rilievo gli sta a fianco, il mozzicone di una zampa forse lo teneva lassù. Entriamo e ci perdiamo nell’ampio pianoro. Case e caserme non esistono più, solo una chiesa mezza diroccata rompe la spianata che un tempo ospitava soldati e poi anche pirati. I veneziani l’abbandonarono nel 1692 o forse più tardi, nel 1715, insieme a Suda e Spinalonga, gli altri ultimi scogli della Serenissima. Ma questo era il più selvaggio e perso, l’ultimo approdo possibile prima di finire in Libia. Se perdevi il vento o non riuscivi a stringere abbastanza sul Meltemi, saresti andato dritto in Africa.

Il giorno dopo avremmo vissuto l’ultima galoppata verso Kastelli – Kissamous, 8 miglia di bel vento per doppiare capo Buso con qualche fatica (troppa onda) e la voglia di arrivare a terra prima della festa di benvenuto. Ma ora c’era da vivere questo baluardo assurdo. I tartari non sarebbero mai arrivati fin qui dove i veneziani sfidarono la natura e la noia con un’opera che sembra impossibile. Segui le mura di pietre grigie che virano anche al blu, legate insieme da calce e da un fregio, e arrivi dove il salto è nel vuoto. Ti attira. Ti vuole. Laggiù, cento metri più sotto, il mare muggisce, le onde si frangono sulle rocce. Il vento riempie il cielo e ogni tanto raffica per ghermirci. Solo due falchi ci fanno compagnia. Il sole lentamente tramonta sul mare. Il buio non ci può cogliere lassù. Ci muoviamo per scendere verso Arina, la nostra barca. L’ultimo scoglio della Serenissima torna nell’oblio.