Venezia – Igoumenitza

Dove eravamo rimasti? Ah, già, gli albanesi diventeranno come noi o noi come loro? Già, ma oggi la questione è un’altra: diventeremo come i greci? Tira un vento cattivo dalle parti del Mediterraneo, come se gli spiriti si fossero ribellati al sole al cielo terso per vendicarsi di un mondo che faceva invidia, che poteva sognare e trastullarsi. Oggi sono tempi di ferro e noi possiamo solo rifugiarci nel sogno e nel ricordo. E allora dai, diventiamo tutti un po’ veneziani, quelli veri, che solcavano il mare e cercavano di capirlo, che guardavano lontano e non si perdevano (sempre) dietro al particolare. Ecco perché siamo qui: per ritrovare una rotta, una via, un futuro. E anche un po’ del nostro passato.

Tutto però ha un inizio. Cominciò cinque anni fa e a metà di questo luglio torrido e incerto riprende da dove era arrivato. A Corfù? Nooooo, ma vicino, a Igoumenitsa, dove sbarcano i traghetti e inizia una terra un po’ incognita che si chiama Epiro e sa di turbanti come queli di Alì Pasha e di vestigia come quelle elleniche. Ma che tutti conoscono come porto di traghetti e sbarco di uomini e camion. Un porto moderno, sospeso in un mondo altro, quello della velocità dopo il giorno di viaggio sul ferry. “Questa a noi piace pensare che sia la porta dell’Oriente per l’Occidente, soprattutto oggi, che da qui parte l’autostrada Egnatia verso Istanbul la nostra piccola città è al centro di scambi antichi”, dice Ioannis Verbis, consulente speciale del sindaco di Igou (non chiedetemi di scriverla tutta ogni volta che è da cruciverba) e manager esperto di informatica e non solo, un quarantenne nato qui, alle porte del nostro viaggio, e spostatosi ad Atene per sviluppare studi e affari. Qui gestisce il progetto Cluster Club promosso dall’Eurosportello veneto ed è lui che fa da primo passepartout nel viaggio verso gli Ultimi scogli della Serenissima a Creta, una meta così lontana che potrebbe per me essere come Istanbul o Timbuctu ma che con lui inizia a prendere forma. “Questa è una regione molto interessante dal punto di vista turistico, non ci sono grandi industrie, l’attività prevalente è l’acquacultura, la Grecia in questo campo è seconda solo al Giappone” dice Ioannis, e capisco che intende allevamento di pesci e che forse questo potrebbe essere uno dei cardini di uno sviluppo che qui è ancora lontano. “Noi abbiamo bisogno di metterci in rete, di sviluppare nuove attività, di aprire contatti col mondo”, afferma, ma poi sorride con disincanto: “Soprattutto ora”. Si finisce a parlare della grande crisi, la nube che ha oscurato il cielo della Grecia e comincia a dilatarsi per mezza Europa. Quel cancro che per prima cosa ha mangiato la fiducia: “E’ vero, la gente non crede più, non solo ai politici ma anche in se stessa, e questo è il primo passo per non investire, non costruire”. La saggezza antica qui è diventata moderna disillusione, lo spirito mercantile e anche levantino si è trasformato in attesa, inerzia. Gli dei che hanno grandi santuari da queste parti a Dodoni ma anche più a sud, dove c’è una delle porte dell’Acheronte, hanno prosciugato di speranze questo popolo che s’era affacciato all’Europa con entusiasmo e ora si ritrova nel mirino e in vendita. “Dovevamo chiudere tutto un anno e mezzo fa, iniziare a non pagare, a dilazionare il debito, e invece ci siamo trascinati fino a qui e ormai nessuno sa più esattamente cosa accade, qual è la situazione, come ci si deve comportare – dice Joannis – per forza poi si compra oro, si ritirano i soldi dalle banche, non si costruisce più”.

Cinque anni fa abbiamo viaggiato Sulle Ali del Leone toccando con mano la sfiducia verso l’Europa e i tormenti di un dopoguerra che non si era ancora concluso. Oggi la Croazia ha già il suo posto prenotato nella Ue ma c’è chi lo sta perdendo. Una guerra a bassa intensità di  sangue e a grande iniezione di tossine e stress si è impadronita di queste terre baciate dal mare, mecca di grandi sognatori come Miller o Fermor, e altrettanti avventurieri, come quel Morosini che dopo aver perso Creta nel 1669, tre lustri dopo decise di partire alla conquista di un altro regno per se e per Venezia: la Morea, l’odierno Peloponneso. La culla dei giochi di Olimpia e dei leoni di Micene, che vibra ancora delle voci rauche delle tragedie classiche a Epidauro ma è costellata di castelli di fata e di pietra che nei secoli hanno costruito gli ultimi eredi di un mondo di cavaleri e dame: i Franchi, i Bizantini, i Veneziani. Ma questa è un’altra storia, anzi, è dentro, innervata in quella che sto cercando di raccontarvi a partire da Corfù, anzi da Igoumenitsa, per sfiorare Parga e infilarsi in una barca che sta a pochi chilometri da qui, a Platarias, un porticciolo di pescatori e anime perse nel fallimento degli affari e del turismo di massa.

Il sole della Grecia crea ombre nette, per questo forse sono un po’ cupo. Ma è ancora presto per lasciarti trasportare da barca e vento, per perderti in tempi passati. Oggi è qui, in un porto piccolo, da approdi persi, come quei tedeschi che hanno lasciato barche a vela in vendita o all’ormeggio perché non si paga. C’è come una sospensione, tra la rotta che ci aspetta e le vite lasciate. Fa parte del gioco, e qui lo vedi nell’abbandono delle grandi cose e nell’ordinaria sobrietà delle piccole: la panetteria, il ristorantino sotto il glicine centenario, la banchina. Poi c’è una fetta di modernità alla caccia del turista fatta di bar con plateatico e tv. Sul molo, la statua della sirenetta scrostata guarda il mare e avverte chi vuole entrare mentre le vecchie barche dei pescatori stanno alla fonda testimoni di un altro tempo, di altra gente, di altre vite più povere. Da qui se sei sano di mente e di fisico puoi solo partire per cercare fortuna, con l’unica speranza di poterci tornare comprandoti una casetta e un pezzo di futuro chissà quanti anni dopo. Per me ed Enrico è solo una notte e il piacere di incontrare e conoscere gli altri compagni di questo nuovo viaggio sulle rotte della Serenissima: il capitan Enrico, occhi chiari e barba dal sorriso un po’ pirata, Sonia che è la sua compagna anche di barca oltre che di vita, Marco e Caterina, una coppia di entusiasti quarantenni che hanno deciso di riconquistarsi la vita e l’amore come due nuovi adolescenti. Sei per dodici metri fanno un buon rapporto per Arina, la nostra Argo quotidiana che dovrà condurci miglia e miglia più giù, a Creta, dove uno scoglio s’è fatto castello e poi nido di pirati: Grambousa.